In occasione di Piazza di Siena, Rolex, partner di prestigio del CSIO romano, ha organizzato un incontro con il grandissimo campione Eric Lamaze, testimonial Rolex da molti anni. Ad accogliere il cavaliere canadese, in rappresentanza della prestigiosa azienda, Merrick Haydon che ha fatto gli onori di casa ospitando nel salotto del palco Rolex Eric Lamaze attorniato dai giornalisti di settore.
Lamaze a Roma ha vinto due volte il Gran Premio quando ancora non era Rolex e il terreno era in sabbia e non in erba: nel 2011 con Hickstead, nel 2014 con Zigali. Con l’autorevolezza di un grande campione per istinto, sensibilità, capacità tecniche e agonistiche, la saggezza di un uomo di cavalli formatosi in tanti anni di vita trascorsa con i cavalli, l’esperienza di uno sportivo ma anche di un uomo che sta vivendo una malattia importante, alla quale reagisce con coraggio e determinazione, Eric Lamaze ha parlato di sé, della sua vita con i cavalli, delle sue vittorie e dei suoi momenti bui, del suo punto di vista sul nostro sport.
E lo ha fatto con lo spessore di un grande campione, con ironia e lungimiranza.
L’INTERVISTA
Da quest’anno lei è divenuto il tecnico della squadra canadese di salto ostacoli: come si sente nel passare dal ruolo di cavaliere a quello di tecnico?
Nel corso degli ultimi due anni della mia carriera di cavaliere il punto è sempre stato quello di capire se avrei potuto continuare finché ce l’avessi fatta, garantendo però la sicurezza dei miei cavalli. Per me, la sicurezza dei miei cavalli è sempre stata più importante della mia. Dopo il CSIO di Calgary in settembre, dove abbiamo vinto la Coppa delle Nazioni, ho fatto degli esami clinici dai quali è risultato che avevo avuto per la quinta volta delle gravi emorragie nel cervello. I medici si erano resi conto che questi fenomeni di sanguinamento potevano dipendere dall’impatto nel momento in cui il cavallo si riceve a terra dopo un salto… È stato un momento tremendo per me, la cui conseguenza sono stati tre mesi di immobilità a letto con solo un’ora al giorno di possibile movimento molto contenuto. Quando poi in dicembre sono andato a Ginevra per la cerimonia di ritiro dallo sport di Fine Lady, beh… è stato uno sforzo enorme: avevo un braccio paralizzato e anche metà della mia faccia ugualmente paralizzata.
Quando sono entrato in campo ero molto emozionato: mi sono fermato un attimo e mi sono reso conto che ormai questa sarebbe stata la mia realtà. Sono tornato nel mio van, mi sono chiuso dentro per poter piangere in solitudine, ma poi ne sono uscito deciso a combattere con tutte le mie forze per continuare a vivere la mia vita. Devo continuare a vivere la mia vita. James Hood ha dimostrato tutta la sua fiducia in me affidandomi il ruolo di chef d’équipe: durante tutta la mia carriera di cavaliere ho sempre pensato che mi sarebbe piaciuto prima o poi ricoprire quell’incarico. Voglio continuare ad aiutare la squadra del mio Paese, e voglio farlo portando giovani cavalieri al vertice del nostro sport. Anche da cavaliere ho sempre pensato che non ci sono giovani emergenti in numero sufficiente, ritenendo anche che ci sono delle cose che possono essere fatte per migliorare.
Mi sono reso conto di avere più creatività e più idee adesso che ho smesso di montare di quanto non fosse in precedenza, anche perché in tutti questi anni da cavaliere sinceramente non ho mai avuto idea di che cosa la nostra federazione stesse facendo davvero… Ho sempre amato tantissimo insegnare: ora io vivo la mia vita attraverso quella degli altri. Quindi invece di fare uno o due percorsi in Coppa delle Nazioni adesso ne faccio otto: perché è come se io montassi insieme a ognuno dei miei cavalieri. Ovviamente non è stato facile per me portare a piedi la bandiera canadese a La Baule e voltarmi indietro vedendo gli altri a cavallo… ma oggi il mio ruolo è questo e io ne sono felice.
È possibile trasferire la propria esperienza di cavaliere agli altri, agli allievi?
Certamente. Io avevo un sistema che ha funzionato perfettamente per me nello sport per tantissimi anni e credo che sia da pazzi non cercare di trasferire questa conoscenza nel momento in cui si possiede una formula vincente. Loro devono accettarlo e seguire questa via. Io ero un vincitore, non ho mai accettato la sconfitta, ho sempre guardato avanti: tutti loro devono imparare a farlo. Il cavaliere deve essere capace di attraversare la difficoltà combattendo senza arrendersi mai.
Lei ha sempre seguito cavalieri a titolo individuale, c’è differenza tra seguire da tecnico una squadra invece di singoli cavalieri?
Nessuna differenza. Non ho un unico e solo sistema: osservo il fisico sia del cavallo sia del cavaliere, il loro modo di muoversi e le loro azioni, e adatto il mio sistema nel modo in cui possa risultare più confacente alle loro esigenze. Quando ho iniziato il mio lavoro di chef d’équipe alcuni cavalieri sono venuti da me con i loro trainer: così ho potuto parlare con loro, vedere il loro modo di lavorare e poi aggiungere a mia volta delle cose.
Ovviamente con alcuni cavalieri ho rapporti più stretti e con altri meno, ma spero che nel tempo aumenti sempre di più il numero di persone che vengono a lavorare da me prima di un evento: in effetti l’abbiamo reso obbligatorio per i cavalieri che devono partecipare a gare di alto livello come una Coppa delle Nazioni. Io mi rifiuto di andare a un concorso di quel tipo senza conoscere perfino un solo binomio: non voglio correre alcun rischio, mi piace troppo vincere. Una volta confermati gli aspetti tecnici, si tratta di creare lo spirito di squadra, cerco di mettere insieme quattro combattenti e li mando sul ring.
Le piace quindi il suo nuovo ruolo?
Mi piace, ma non posso dire che non mi manchi montare a cavallo. La mia testa potrebbe ancora consentirmi di montare, guardo le gare di salto e penso “perché lo stai facendo”, ed è frustrante. Ma, allo stesso tempo, più sono coinvolto nei nuovi e diversi aspetti di questo sport, più imparo e questo è eccitante per me. Se non fossi stato chef d’equipe sarebbe stato devastante per me. Sono sicuro che qualcuno mi avrebbe assunto come trainer personale, ma non sarebbe stato abbastanza, perché mi piace la quantità. Insegno molto a casa, e l’ho sempre fatto: a casa ho più insegnato che montato. Non sono un buon lavoratore in piano, quindi ho sempre avuto qualcuno che lo fa meglio di me.
Il prossimo appuntamento Sono i Campionati del Mondo di Herning: pensa che sia possibile per il Canada vincere una medaglia?
Non solo una medaglia: direi la medaglia d’oro! Conquistare quella d’argento sarebbe una sconfitta. Io non penso al secondo posto o addirittura a non essere sul podio. Quando ero cavaliere sentivo il mio chef d’équipe dire che l’obiettivo da conquistare nel Campionato del Mondo era la qualificazione per le Olimpiadi: beh, io pensavo che come chef d’équipe ai miei cavalieri non avrei mai detto una cosa del genere, no… io avrei detto che l’obiettivo doveva essere quello di vincere la medaglia d’oro.
Il livello del salto ostacoli è molto alto, ci sono tanti concorsi in tutto il mondo: quale è il modo migliore per tenere i cavalli in forma oggi?
Come cavaliere non si può partecipare a tutti i concorsi, e ad alcuni di essi si partecipa non per competere ma per educare il proprio cavallo. Al giorno d’oggi non c’è tempo per allenare i cavalli, visto che si passa da uno concorso all’altro. In passato tra un concorso e l’altro c’erano due settimane di pausa. Quindi, molti cavalli vanno da un concorso all’altro portandosi dietro gli stessi problemi. I cavalieri ora devono avere abbastanza cavalli per stare nel giro e io dico sempre che non vale la pena rischiare su un cavallo che si sa che non è all’altezza solo perché si vuole competere a un certo livello: non finisce mai bene.
Bisogna prendersi il tempo necessario per crescere i propri cavalli. In Belgio, per esempio, ci sono piccoli concorsi nazionali il lunedì, il martedì e il mercoledì, il che è ottimo perché si possono formare i cavalli per il livello superiore. Troppi cavalieri vanno ai concorsi in base alla loro idoneità a partecipare e non hanno il cavallo per competere a quel livello.
Quale consiglio si sentirebbe di dare a un cavaliere giovane oggi?
Incontrare me! Io vengo dal nulla e ho avviato la mia impresa Torrey Pines dal niente quando avevo 19 anni, e oggi esiste ancora. Sono partito da una scuola di equitazione, sono diventato il numero uno del mondo e adesso guido la squadra nazionale… Non avevo mai sognato le Olimpiadi, non ero il tipo di ragazzino che guardava le gare di salto ostacoli, non era quello il mio ambiente. Ma in qualche modo il lavorare duramente mi ha portato in quella direzione…
Mi ricordo che alle Olimpiadi di Pechino, dove ho vinto la medaglia d’oro individuale, nell’esatto momento in cui ho iniziato la prima falcata di galoppo mi sono sentito grande e vivo come mai prima… Oggi non si offrono più opportunità ai giovani: li si usa come allievi lavoratori, è molto difficile. Non sono sicuro che sarei sopravvissuto in un mondo come quello di oggi, se avessi cominciato dieci anni fa probabilmente non ce l’avrei fatta. Questo è il motivo per cui il nostro obiettivo è quello di cercare veri talenti partendo dai pony club e dai piccoli concorsi nazionali. Tiffany Foster proviene da una situazione non certo di ricchezza ma ce l’ha fatta: ecco, io voglio aiutare persone così. Ovviamente c’è bisogno anche delle persone ricche, perché sono quelle che possono comperare i cavalli, ma non vorrei vedere ragazzi che smettono solo perché non hanno i mezzi economici per continuare: perché spesso quelli destinati a diventare campioni sono proprio loro.
E’ importante quindi trasferire la sua conoscenza e competenza ai ragazzi…
È fondamentale restituire allo sport ciò che dallo sport si è ricevuto. Che senso avrebbe accumulare tutta questa esperienza se poi non la si offre al prossimo? Cosa facciamo, ce la portiamo nella tomba? Nella mia vita ci sono stati alti e bassi, ma alla fine è arrivata la gloria sportiva: ognuno di noi può avere il suo momento nella vita. Io sono sempre stato il tipo di ragazzo destinato a rimanersene in basso e quindi costretto a scalare la montagna verso la vetta: e con la nostra squadra vogliamo fare lo stesso. Questa squadra avrà il potere di farmi cancellare gli ultimi cinque anni di malattia.
Quale cavallo del circuito internazionale le piacerebbe montare?
Cayman Jolly Jumper di Simone Delestre, un figlio di Hickstead! Se avessimo un Eric sano, sarebbe il suo tipo di cavallo! Poco controllabile in campo prova ma in gara non gli manca davvero nulla! Cayman Jolly Jumper assomiglia molto a Hickstead!
Lei da tempo fa parte della famiglia Rolex: che significato ha questa appartenenza?
Durante un concorso a Ginevra… erano gli anni in cui stavo montando Hickstead, mi avvicina Rodrigo Pessoa per dirmi di Rolex. Allora io avevo alcuni sponsor che mi passavano qualcosa, una sella, dei finimenti… e io pensavo che fosse tutto favoloso. Ma l’incontro con Rolex mi ha letteralmente cambiato l’esistenza, mi ha portato a un altro livello. Diventare testimonial di Rolex è stato uno dei più grandi traguardi della mia vita, per un cavaliere è una cosa di prestigio assoluto… Rolex ha fatto tantissimo per me, e io molto poco per Rolex. Spesso ho pensato che noi cavalieri potremmo fare molto di più… perché fare parte della famiglia Rolex è qualcosa che porteremo per sempre dentro di noi.
Cosa pensa del ritorno dell’erba sul terreno di Piazza di Siena e del riassetto di tutta l’area circostante il campo di gara?
Beh, stiamo parlando di uno dei più suggestivi concorsi del mondo, in nessun luogo esiste qualcosa come Piazza di Siena. Concorsi come quello di La Baule e di Roma sono stati rivitalizzati dalla sponsorizzazione di Rolex. Una volta Piazza di Siena c’erano le tribune intorno al campo, e noi come cavalieri pensavamo che andasse bene così: in realtà nessuno si poteva rendere davvero conto di quanto stupendo fosse questo posto, cosa che invece è immediatamente percepibile in assenza delle tribune. Ed è bellissimo vedere il pubblico potersi sedere ovunque e sdraiarsi sull’erba… l’idea è quella di un totale relax, una sensazione che si percepisce chiaramente, e inoltre per i cavalli è meglio non avere troppa gente a ridosso del campo di gara.
GRAN PREMIO ROMA 2011: LA VITTORIA DI HICKSTEAD
«Quando ho vinto con Hickstead nel 2011, c’erano quattordici cavalli in barrage. Nick Skelton era terzo a partire e ha fatto un percorso che tutti abbiamo considerato imbattibile. Ma poi Michel Robert l’ha superato e tutti sono rimasti scioccati quando Michael Whitaker a sua volta ha superato Michel! Io ho deciso di andare dal numero due al tre tagliando la linea il più possibile, il che avrebbe voluto dire affrontare l’oxer numero tre con una traiettoria molto angolata e poi andare diretto sulla successiva gabbia. Così ho fatto la linea dall’uno al due proprio come tutti gli altri cavalieri, con lo stesso numero di falcate, poi dopo il due ho aperto molto presto la mia redine destra al massimo facendo capire chiaramente a Hickstead le mie intenzioni e lui si è piegato verso terra come una motocicletta al massimo della velocità, una cosa ai limiti del credibile… Siamo atterrati volando oltre quell’oxer alto 1.55 e il mio cavallo non aveva idea di quale sarebbe stato l’ostacolo successivo ma grazie a quella traiettoria angolata poi ci siamo trovati perfettamente in linea perpendicolare sulla gabbia, dove invece tutti gli altri avevano fatto un avvicinamento con una curva. Hickstead non ha toccato una sola barriera: credo che alla fine il nostro vantaggio sia stato di circa due secondi.»
HICKSTEAD LEGACY
Con le sue vittorie Eric Lamaze ha legato in maniera indissolubile il proprio nome a Piazza di Siena. Con lui Hickstead, che continua a farlo attraverso i suoi discendenti. Nella vittoria della Francia della Coppa delle Nazioni dello scorso maggio c’è infatti anche la firma di Cayman Jolly Jumper, attualmente il miglior figlio di Hickstead, autore di un doppio netto con Simon Delestre.
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