Non solo un grandissimo cavaliere e uomo di cavalli, Giorgio Nuti è un uomo dallo straordinario carisma, trainer di eccellenza e con una grande sensibilità, qualità che gli consentono intuizioni fuori dal comune. Giorgio Nuti racchiude in sé saggezza ed esperienza di lunghi anni di attività sui campi di gara internazionali, come cavaliere e come trainer di giovani cavalli e cavalieri.
Diretto, ironico e concreto, Giorgio Nuti ce la vede lunga…
L’intervista
Un curriculum importantissimo, un cavaliere che ha rappresentato per decenni l’Italia ai massimi livelli internazionali del salto ostacoli e che ha portato avanti l’eredità dei fratelli d’Inzeo e di Graziano Mancinelli.
Insieme ad altri cavalieri della sua generazione, Giorgio Nuti è stato un grande dell’equitazione non solo italiana ma mondiale. «I grandi sono stati loro, i d’Inzeo, noi siamo stati quelli che hanno cercato di seguirli, ma i grandi sono quelli che vincono le medaglie. Noi abbiamo cercato di raccogliere la loro eredità».
Così, elegantemente, Giorgio Nuti commenta l’introduzione all’intervista…
Come eravamo? Come erano i cavalli, i cavalieri, i percorsi? Come era lo sport rispetto a come è oggi? Quale è stata la più grande evoluzione, secondo te, che ha coinvolto il nostro sport?
Per dirlo in parole povere, ritengo che lo sport, il lavoro dei cavalli, il galoppare, le cadenze delle andature… siano sempre uguali. Quella che è cambiata è la costruzione dei salti; una volta gli ostacoli erano molto pieni e si tendeva ad avere cavalli potenti e magari non tanto rispettosi.
Oggi invece, come possiamo ben vedere, gli ostacoli sono più vuoti, molto leggeri e delicati, con barriere più piccole.
Ci vogliono cavalli super lavorati, rispettosi e con molto sangue. Quindi la qualità dei cavalli è essenziale.
Il lavoro e l’allenamento dei cavalli sono sempre fondamentali, lo erano anni fa come lo sono adesso.
Sono cambiati i tempi di durata dei percorsi. Prima c’era più tempo per organizzarsi le girate.
Adesso è tutto molto stretto. Se metti anche solo un tempo di galoppo in più sei già fuori tempo.
Questa è una delle difficoltà maggiori che incontriamo nei percorsi di oggi.
Il tempo che conta e i percorsi ‘comodi’
Ritengo che in Italia dobbiamo lavorare meglio per affrontare queste difficoltà, dobbiamo adeguarci ai percorsi di oggi – aggiunge Giorgio Nuti – Premetto che i nostri costruttori di percorsi sono bravissimi, però i nostri percorsi sono sempre molto comodi. Ritengo che nelle categorie da 1 metro e 30 in su dobbiamo adeguarci al tempo limite dei percorsi che ci sono all’estero. In pratica, dobbiamo galoppare di più.
Se noi, anche semplicemente in un concorso nazionale, all’interno di una linea abbiamo la possibilità di mettere anche due tempi di galoppo in più siamo già fuori classifica, siamo già penalizzati dal tempo. Questo cambiamento però ancora non avviene.
I percorsi continuano a essere comodi, tutti sono contenti ma essere contenti non porta a niente, e purtroppo non fa crescere.
Quando andiamo all’estero e ci dicono che dobbiamo stare nel tempo, ecco che già si crea una complicazione. ‘Dobbiamo stare nel tempo’ ma il tempo è stretto e noi non abbiamo l’abitudine.
Ci mettiamo a galoppare ma alla fine qualche errore lo facciamo proprio perché non siamo abituati. Questa è già una grande differenza che ci penalizza rispetto a nazioni più avanti di noi.
Io ho montato insieme ai fratelli d’Inzeo, a Graziano Mancinelli e a tutti i ragazzi della mia generazione. Eravamo ragazzi con tanta voglia di imparare, di crescere.
L’impostazione del lavoro era la stessa di oggi, il modo è lo stesso di un tempo, oggi però serve una mentalità più vincente, non bisogna accontentarsi.
Giorgio tu lavori tanto con i giovani, anche come tecnico federale. Secondo te di cosa hanno bisogno per costruirsi una carriera stabile e vincente?
I giovani devono innanzitutto avere buoni istruttori e buoni cavalli, proprio perché i percorsi sono cambiati. Ma ciò su cui si deve insistere di più è lavoro in piano.
Ancora oggi si lavora troppo poco in piano. Siamo bravi a saltare ma molto carenti nel lavoro di base e di preparazione in piano.
Io mi accorgo da determinati esercizi che faccio fare nei diversi stage e mi rendo conto che anche i cavalieri di alto livello fanno fatica e invece non dovrebbero farla!
Questo denota la mancanza di un lavoro in piano solido e ben fatto. Se guardiamo le nazioni più forti ci accorgiamo subito che i cavalieri mettono molta cura anche nella condizione atletica dei cavalli.
I cavalli devono arrivare a saltare il secondo percorso senza fatica, ancora freschi.
Oggi ci sono due percorsi più il barrage, quindi i salti sono tanti. è su questi aspetti di base che bisogna insistere, lavoro in piano e allenamento.
Per cambiare la mentalità, sei d’accordo che bisogna cominciare dalla base?
Certo che si deve cominciare dalla base. Parlando di Parigi 2024 sono vent’anni, dalle Olimpiadi di Atene, che la squadra dell’Italia del salto ostacoli non partecipa alle Olimpiadi.
Una federazione dovrebbe preoccuparsi. Non sono io a dover dire cosa bisogna fare per qualificarsi, ma l’obiettivo di una federazione deve essere quello di qualificarsi alle Olimpiadi.
Tante possono essere le ragioni. Una su tutte la mancanza di programmi. Ci tengo a portare l’esempio del mio cavallo Ninja che ho iniziato a montare come giovane cavallo e a otto anni è stato venduto ad Alfonso Romo per Rolf-Goran Bengtsson.
Ninja è stato venduto non perché era stata offerta una grossa cifra, che si vociferava essere irrinunciabile. Ninja è stato venduto perché il mio sponsor non aveva programmi per lui.
Senza programmi perché avremmo dovuto tenerlo? Per fare i nazionali in Italia?
A quel punto era meglio venderlo e dargli una vera carriera. Si sentiva dire che il cavallo con me faceva sempre un errore in Gran Premio, ma il cavallo aveva otto anni e bisognava lasciargli il tempo di crescere, aveva bisogno almeno di un altro anno per maturare.
Poi, all’ultimo momento, mi è stato chiesto se volevo fare le Olimpiadi di Atene, io ho rifiutato perché un’Olimpiade non si improvvisa!
Così lo abbiamo venduto e con Rolf-Goran Bengtsson ha fatto una super carriera, con l’argento individuale alle Olimpiadi di Pechino e la vittoria dei Campionati Europei a Madrid.
Tutto questo per mancanza di programmi, uno dei problemi più grandi che a mio parare abbiamo in Italia.
Si dice da sempre che bisogna formare i cavalli giovani, ma poi vediamo tanti di questi cavalli che alla fine non arrivano a dieci anni, come mai?
Chiediamoci il perché! Non voglio entrare nei particolari ma serve darsi delle risposte.
Per qualificarci alle Olimpiadi cosa si deve fare?
Forse bloccare dei cavalli affinchè non vengano venduti? Forse programmare di più e meglio?
Mancare da vent’anni alle Olimpiadi come squadra non è certo una cosa bella.
Ai nostri tempi abbiamo vinto la Coppa delle Nazioni di Aquisgrana nel 1976 prima delle Olimpiadi di Montreal.
Poi le Olimpiadi non sono andate bene anche a causa del terreno brutto per il maltempo, ma questo fa parte del mestiere.
C’è qualcosa che nella tua carriera avresti voluto fare? Un rammarico per qualcosa che non hai fatto?
Si un rammarico ce l’ho.
Quando, avevo 19 anni, abbiamo mancato l’argento a squadre e individuale agli Europei di Monaco nel 1975.
Purtroppo Vittorio Orlandi fu eliminato e ci siamo giocati così l’argento a squadre, finendo quinti, e anche l’argento di Orlandi individuale.
Era una medaglia già vinta. E poi ho il rammarico di non avere vinto delle medaglie.
Come ho già detto all’inizio, il campione è quello che vince le medaglie.
Sei un grandissimo cavaliere, uomo di cavalli, trainer. Non ti sarebbe piaciuto occupare posizioni di dirigenza nell’equitazione italiana?
Ho fatto il tecnico degli Juniores per un po’ di tempo, poi però ho dato le dimissioni perché purtroppo c’è sempre qualcosa che blocca, che impedisce di andare avanti.
Le offerte sono state tante, tutti i presidenti mi hanno proposto di fare il tecnico con determinate condizioni ma ho sempre rifiutato.
Erano situazioni in cui non volevo trovarmi, ho ritenuto che non fosse la mia strada ma sono contento così.
Il mio parere è che ci sono stati bravi tecnici, io non attribuisco a nessuno di loro responsabilità, però è sempre mancata la programmazione. Serve fare un programma.
Se abbiamo un cavaliere bravo con un buon cavallo dobbiamo cercare di conservarli entrambi per le gare importanti, europei, mondiali, olimpiadi.
Certo è difficile vincere le medaglie ma se non si lavora per obiettivi importanti per cosa si lavora?
Per fare i nazionali? Allora andiamo avanti così.
Lo spirito deve essere un altro.
Per me lo spirito, il fuoco sacro, era vincere una medaglia, anche se poi non ci sono riuscito, ma era per questo che lavoravo, per avere degli obiettivi.
Tu sei stato tecnico del primo Talent Team Campus di Scuderia 1918.
Un format innovativo che unisce tecnica, veterinaria, etologia, management, preparazione atletica, studio e altro ancora. Cosa ne pensi?
È un ottimo format. Bisogna divulgarlo e aprirlo a tanti giovani.
Durante le vacanze estive bisogna organizzare periodi per riunire i ragazzi e portarli a conoscenza del mondo equestre in generale, per farli diventare uomini di cavalli.
Meglio un concorso in meno e un corso come quello organizzato da Scuderia 1918. Andrebbe preso da esempio e aperto a tanti giovani.
Oggi ci sono io, domani potrebbero esserci altri tecnici, cavalieri, trainer, e poi preparatori atletici, veterinari, maniscalchi.
Bisogna creare i cavalieri di domani attraverso la conoscenza, la cultura.
Conoscere il cavallo è indispensabile…
Il cavallo è l’eroe del nostro sport.
Per questa ragione bisogna arrivare a una conoscenza profonda del cavallo, per poter fare al meglio il nostro lavoro.
Le nazioni che vincono alla fine sono sempre le stesse, perché hanno una conoscenza profonda di tutti gli aspetti del cavallo.
Senza cultura del cavallo non si va da nessuna parte. Il mondo equestre non è andare da un concorso all’altro… Noi ci accontentiamo, cerchiamo giustificazioni, come chi alza il dito verso il cielo…
E’ giusto ringraziare sempre il cavallo, lui si che va ringraziato, ma senza alzare il dito in segno di vittoria se non si è entrati nemmeno in classifica….
Quando si sente dire che il primo giro non è andato bene ma nel secondo ci siamo ripresi…
Ma cosa vuol dire? Non abbiamo vinto nulla e non ci sono giustificazioni.
Vuol dire che c’è qualcosa che non va.
Così ci accontentiamo di un niente.
Lo spirito competitivo ce l’hai nel sangue…
Si, lo spirito competitivo ce l’ho ancora ma per i ragazzi che seguo.
Quando sono seduto davanti alla televisione e osservo determinate cose… vedo dei cavalieri che sì, hanno delle capacità, ma gli manca qualcosa.
Cos’è che manca? Non sta a me dire cosa manca ma cerchiamolo…
La next generation del ‘dopo d’Inzeo’
I giovani protagonisti della generazione del ‘dopo d’Inzeo’ e Mancinelli, erano Uberto Lupinetti, Roberto Arioldi, Giorgio Nuti, Emilio Puricelli, Duccio Bartalucci, Filippo Moyersoen, Francesco Bussu, più i quattro ufficiali della Scuola Militare di Equitazione Salvatore Oppes, Stefano Scaccabarozzi, Alessandro Galeazzi e Michele Della Casa.
Tutti loro hanno saputo portare il peso di un’eredità importantissima, di un’Italia in cima al mondo, e la grande responsabilità di essere stati proprio loro gli allievi dei grandi. E sono riusciti nell’intento.
Ognuno di loro ha avuto una carriera professionale e agonistica ai massimi livelli.